Con la prima promozione in B, quella vera, sopra c’è solo la serie A, si chiude un ciclo, quello dell’era antica, del basket artigianale, tutto anema e core; si schiudono ora le porte di un radioso futuro, quello dell’era moderna, degli omogeneizzati (Charlie, che ama il vino, smette), dei ritiri, degli sponsor e delle tute di raso. Io, personalmente, consentitemi una nota autobiografica, chiudo qui, a 25 anni, la mia carriera sportiva a un certo livello e vado a servire la Patria in armi (invece che la compagnia atleti mi toccherà un reggimento punitivo); l’ing. Della Biancia, allora presidente della Libertas, mi consegna una medaglia per le mie 150 partite (avevo esordito in prima squadra nel ’61, non ancora quindicenne, contro la Fulgor di Forlì) e chi s’è visto s’è visto. Io , per dimenticare, mi do alle danze (vado a lavorare all’Embassy, un po’ di pubblicità, Renzo). Nutro da allora, lo confesso, verso la nostra Società, come nei confronti di una donna della quale sei stato follemente innamorato e che ti ha poi respinto, un sentimento di odio-amore che ancora oggi mi perseguita. Usciamo dunque dalla storia ; le vicende degli anni che seguono appartengono più alla cronaca, e per me appaiono del resto più sfumate, chè le ho vissute indirettamente , attraverso il racconto dei miei ex compagni o da spettatore.
Comunque nel ’72 arriva a Rimini Marchionetti, ex giocatore di Pesaro, oggi allenatore della Basket Napoli. La caratteristica precipua di Marchionetti pare essere quella di parlare molto (un precursore?); è ben preparato tecnicamente ma parla, parla in continuazione: parla in macchina, a cena, nel sonno, in partita. Lui all’allenamento non ci va in tuta, si porta una brocca d’acqua e li mette tutti in circolo ad ascoltare: davanti “Omo” Piccoli e Ungaro, che dormono dietro agli occhiali e Rinaldi (non parla, ma sta attento!), che gli occhiali non li ha e fa da cavia per tutti gli esperimenti; Rick e Walter, vecchie volpi, in ultima fila parlano di rogiti e obbligazioni, “Gigi” Longo suona il flauto. In partita poi usa, durante i time-out, per spiegare schemi che si adattano a situazioni tattiche non previste, una lavagnetta speciale (ecco che questo maraviglioso instrumento fa la sua prima apparizione sui campi di gioco a Rimini). Non è una lavagna normale, coi gessetti (forse per resistere alla tentazione di disegnare inconsciamente simboli fallici), è una lavagna magnetica, che riproduce in scala un campo di basket, con cubetti che, meraviglia, aderiscono alla sua superficie per cariche elettriche di segno opposto e simboleggiano i giocatori; lui li muove spiegando in pochi secondi e con una chiarezza tale da confondere Cartesio, gli schemi che i giocatori devono riprodurre in campo. Ma l’unico geometra in squadra è Longo, gli altri vanno da tutte le parti creando ingorghi storici. Il fatto è che spesso (si sa , i geni sono tutti un po’ distratti) li perde, i cubi. E allora provvede con le scarpe di quelli che sono in panchina, per terra (sembra che giochino “allo scalo di Zo”); tanto è vero che in panchina prevale l’uso di starci con le pantofole e la giacca da camera, che fa anche freddo. Pare poi che fosse un emotivo, al punto che, immancabilmente, prima della partita doveva, come dire, ritirarsi in meditazione; ma si sa , spesso nei palazzetti non c’è, che dico un piano, neppure un sottoscala di morbidezza. Così era solito detergersi (relata refero) dove gli capitava, di solito l’accappatoio di Parmeggiani ( ma queste devono essere proprio insinuazioni da lavandaia). Si salva comunque, guidata da Marchionetti, la Sarila al primo impatto con la serie cadetta; ma al secondo campionato anche Marchionetti conosce la sua Waterloo a Brescia, dove i due vecchietti terribili, “capitan uncino” Flaborea e “Chicco” Ovi ci massacrano (perdiamo di 43 punti alla fine del primo tempo!). Dopo una breve consultazione fra sé e sé, Carasso, confortato in ciò anche dall’approvazione di Parmeggiani che ha finito gli accappatoi, decide di porre fine al rapporto di collaborazione (si dice così, no?); e Marchionetti, lavagna sotto il braccio, emigra al sud in cerca di fortuna.
Si corre a Pennabilli dove Cincinnato Rinaldi sta arando il campicello; molla tutto, impugna il brando e accorre (Rinaldi veste sempre tuta e scarpe da tennis) al capezzolo, pardon, capezzale (lapsus freudiano, mi ricordo che “Abdon” Paci diceva sempre: “Le assicurazioni sono la tetta per noi avvocati!”) della Sarila. Purtroppo non sarebbe bastato neppure Silvestrini, tale era la situazione. Si apre così un periodo caratterizzato da chiari(di luna) e scuri, complici certe disfunzioni nel servizio dell’Enel e Guiducci padre. Rinaldi ce la mette tutta, ma non ce la facciamo proprio a salvarci; non solo, ma a seguito della nota vicenda Di Nallo (c’è una sentenza passata in giudicato, mi dice l’avvocato, che fa anche rima) veniamo penalizzati ulteriormente.
Precipitiamo grottescamente nel ridicolo e in serie D.
A pilotarci fuori dalle acque melmose della serie D viene chiamato a Rimini Alberto Bucci. Bucci proviene dalla Fortitudo di Bologna, dove, nel campionato precedente ha rilevato in panchina Lamberti, esonerato a metà campionato; dopo aver condotto alla salvezza la squadra affidatagli, anziché rimanere come aiuto allenatore di Asa Nicolic, che è stato nel frattempo ingaggiato dalla Fortitudo, preferisce approdare ad una società nella quale occorre programmare un lavoro nel tempo e dove può godere di ampia libertà decisionale, in un ambiente stimolante e motivato dalle negative esperienze precedenti. Il programma immediato prevede di risalire subito dalla D alla B, grazie ad un meccanismo di promozioni che, quell’anno, consente il duplice salto; poi, nell’arco di tre anni, la scalata alla serie A. Cambiano i giocatori, nomi nuovi si affacciano a livello dirigenziale, la televisione (privata) scopre il basket e ne allarga il giro di appassionati, Carasso si impegna solennemente di portare la squadra in serie A e poi lasciare. A parte questa storia del lasciare, tutto si verifica puntualmente: nel ’78 entriamo anche noi nell’elite nazionale dei baskettieri. Ho trascurato volutamente le vicende, gli episodi ed i nomi dei giocatori protagonisti di questa scalata entusiasmante, un po’ perché sono ancora freschi nella memoria di tutti e perché, secondo me, la figura di Bucci prevale su tutto il resto. Bucci inizia a lavorare a ritmi ai più sconosciuti: Walter, al terzo allenamento, consultato l’orologio, “Devo fare un rogito…” e se ne va; Rick resiste e inizia a schiacciare a 28 anni, conoscendo così una seconda giovinezza. E’ esigente dai suoi al pari che da se stesso: da ognuno pretende e generalmente ottiene il meglio, riesce a trasmettere grinta e mentalità vincente. In panchina mostra tutto il suo temperamento: Caronte Bucci (Caron dimonio con occhi di bragia batte col remo qualunque s’adagia..) sbraita, strepita, avvampa, nei momenti di maggior tensione gli trema la gamba. Ma i frutti del suo meticoloso lavoro si toccano con mano, la squadra cresce e con essa l’entusiasmo degli sportivi, entusiasmo che raggiunge l’apice con la promozione in serie A…