Due sono secondo me i giocatori fondamentali in una squadra di basket: il pivot e il playmaker. Essi costituiscono l’asse attorno al quale si sviluppa il gioco, sono la struttura portante di ogni azione, ciò senza nulla togliere agli altri componenti di una squadra. Il pivot è fondamentale in difesa: rimbalzi, stoppate, dura lotta nelle mischie in area sono il suo pane quotidiano, spesso rappresenta l’ultimo baluardo a difesa del proprio canestro, deve aiutare i compagni (ma nessuno è esentato da questo compito), dirigerli, sostenerli e intimidire gli avversari. Il maggiore esempio, nella storia del basket, è rappresentato senz’altro da Bill Russell, il più grande difensore di tutti i tempi, uno dei grandi miti dell’NBA. Non era magari un grande attaccante, perlomeno non come il suo grande antagonista Chamberlein, ma in difesa non aveva rivali; il suo allenatore, all’università, aveva escogitato un nuovo tipo di difesa a zona, la “Hei Bill”: quattro in perenne anticipo e Bill a presidiare l’area dei tre secondi, stoppando chiunque osasse tirare da tre-quattro metri e lanciando immediatamente il contropiede, un fenomeno di riflessi e risorse atletiche! In Italia Meneghin ha fatto per molti anni la differenza fra la squadra di Varese e le altre proprio per questa ragione. Oggi le doti di carattere fisico vengono anteposte a quelle di carattere tecnico: il pivot non gioca più esclusivamente spalle a canestro o quasi, l’uncino è un tiro purtroppo ormai obsoleto. Solamente “zio Willie” Sojourner ne fa un uso continuo, di destro e di sinistro, e con buon profitto, dal momento che è un tiro praticamente immarcabile. Peccato perché è un tiro di straordinaria efficacia: “capitan uncino” Flaborea riusciva spesso ad avere la meglio su avversari più dotati fisicamente, grazie al “gancio” appunto, Vlastelica tirava anche i tiri liberi in uncino, “Charlie” Recalcati lo adoperava in contropiede per evitare le stoppate. Fra i pivot europei vorrei ricordare Jiri Zidek, dello Slavia di Praga, grande protagonista degli anni ’70. Alto 2,06, non era un mostro di potenza, ma era in possesso di una tecnica formidabile e di un gioco di gambe perfetto, che lo metteva in condizione di giocare uno-contro-uno con qualunque avversario; dotato di un notevole ambidestrismo, era pure dotato di un tiro da fuori assai preciso. Assieme ai compagni di squadra, il granatiere Mifka, l’ala Zednicek, il play Baroch e le guardie Ammer e Ruziska, contribuì in maniera decisiva a portare la nazionale cecoslovacca ai vertici dei valori europei. In ogni caso, quanto più la palla riesce ad arrivare al pivot, tanto più è efficace il gioco d’attacco di una squadra: primo perché il pivot può giocare contro il proprio avversario a non più di due-tre metri dal canestro, poi perchè ai difensori viene a mancare uno dei principi fondamentali di una buona difesa, che è quello di vedere contemporaneamente uomo e palla; quindi il pivot può rapidamente riaprire all’ala o alla guardia per un buon tiro o per un taglio verso canestro. In ogni caso il passaggio al centro mette sempre in crisi la difesa. Purtroppo è un passaggio che comporta una buona dose di rischio, perché sul pivot c’è sempre un difensore che gioca d’anticipo e chi difende sulla palla sa che deve chiudere la traiettoria di un eventuale passaggio dentro. Uno dei segreti di chi si appresta ad effettuare un passaggio al pivot è quello di tenere impegnato il proprio difensore; fintare il tiro, un’entrata, qualsiasi cosa per mascherare l’effettiva intenzione. Purtroppo troppo spesso si vedono giocatori con la palla alta sopra la testa che cercano disperatamente il compagno cui passare la palla; raramente, in questo caso, si avrà un buon passaggio, perché un giocatore con la palla sulla testa non è pericoloso, e il suo difensore arretrerà per “flottare” sugli avversari, chiudendo i “corridoi” pericolosi per la difesa.
L’altro ruolo fondamentale in una squadra di basket è quello del playmaker. Non a caso le squadre che hanno fatto grande la pallacanestro italiana negli ultimi anni avevano grandi registi: l’Ignis aveva Ossola, partito lui non è riuscita a ripetere i risultati precedenti, la Squibb è rimasta per anni ai vertici europei con Marzorati, la Synudine ha vinto due scudetti con Caglieris, di cui oggi piange la partenza, il grande Simmenthal aveva Pieri e Iellini. Il playmaker è l’allenatore in campo, detta gli schemi che reputa, azione per azione, più adatti a battere la difesa; per questo deve essere in grado di “leggere” immediatamente il tipo di schieramento difensivo adottato dagli avversari, individuarne i punti più deboli, deve mettere in condizione i compagni di andare al tiro nelle condizioni migliori, sfruttandone al meglio le caratteristiche. Deve saper infondere sicurezza, essere un trascinatore; i compagni devono essere sicuri che la palla arriverà loro al momento giusto, e che in caso di difficoltà il play sarà pronto a dar loro una mano, per ricominciare a tessere gioco, per riordinare le idee. Il play deve dettare il ritmo della gara, sapere quando è il caso di accelerare il gioco o rallentarlo, capire il momento chiave della partita, “sentire” quando l’avversario è in difficoltà, deve avere in poche parole quello che io chiamo “il senso della partita”. Per questo un buon playmaker diventa tale dopo aver acquisito molta esperienza: le situazioni, nel basket, non sono mai uguali, e solo con gli anni si raggiungono la freddezza e l’intelligenza di gioco necessarie. Il più grande esempio di giocatore di questo tipo, tutto dedito al compito di far giocare gli altri, il più grande “cervello” del basket nazionale è stato certamente Aldo Ossola. Sicuramente la Grande Ignis, quella che è entrata ormai nella leggenda, deve tantissimo a Meneghin, a Morse, a Raga, a Zanatta, a Flaborea, a Bisson e agli altri; ma quanto ognuno di loro debba a Ossola è veramente difficile da quantificare. Ottimo difensore, magari non spettacolare e neanche esteticamente valido (aveva i piedi piatti), aveva braccia velocissime; non ha mai segnato molto, Ossola, né qualcuno se ne è mai lamentato, ma aveva un senso innato della regia, una sensibilità tattica eccezionale e una visione di gioco perfetta, temperamento e mentalità vincente, doti che ne hanno fatto un vero e proprio Von Karajan del basket, il più grande regista, secondo me, degli ultimi anni. L’ing. Marzorati è sicuramente ancora uno dei play in circolazione più forti a livello europeo: immenso talento naturale, tecnica sopraffina, gambe a propellente atomico, alle doti di regista di Ossola ha aggiunto capacità realizzativa ed estro, senza però eguagliarlo sul piano della sagacia tattica. Le fortune della pallacanestro canturina sono in gran parte legate al suo nome.
Se oggi i registi di vaglia scarseggiano (quelli buoni, fra A1 e A2 si contano sulle dita delle mani), lo si deve in parte alla mania che negli anni ’60 e ’70 contagiò i tecnici nostrani della ricerca affannosa di “lunghi” da avviare al basket, dei nuovi Meneghin. Oggi assistiamo ad una rivalutazione del ruolo del play, piccolo magari ma dotato di fosforo, ruolo che per molto tempo, sulla scorta di informazioni che ci pervenivano da oltre oceano, è stato snobbato e misconosciuto. A me, anche se non ho mai avuto, come dice Guido, il complesso dell’incompreso, la cosa dà un enorme piacere.
Lovv
Approfondimenti
marzo 1982