Pare che, negli ultimi anni della sua vita, G.B. Shaw fosse solito dire, con malinconica autoironia: “Io sono un ateo che sta perdendo la sua fede”. Processo analogo, ma inverso, deve aver subito, invece, chi abbia seguito le vicende della Marr nella seconda parte di questo campionato. Ed io, lo confesso, ho vissuto questo torneo con lo spirito di quei frati Trappisti, quelli che quando si incontrano sotto le volte mute dei loro chiostri muscosi, si salutano con le parole: “Fratello, ricordati che devi morire”. E infatti, prima di affrontare questo primo campionato di A1, un’analisi degli organici delle contendenti non poteva non includerci fra le candidate, e fra le più serie, alla retrocessione. Yoga e Honky apparivano già fra le predestinate; di una squadra si poteva ipotizzare una caduta verticale, ponendo una variabile impazzita all’equazione della salvezza, e questa squadra si è rivelata essere l’Australian, che pure era partita con qualche ambizione; e poi? Due squadre che sulla carta apparivano fra le nostre più probabili concorrenti al ruolo di vittima sacrificale, la Mulat e le Cantine, avevano avuto un inizio di campionato razzente, meritandosi il titolo, platonico se volete ma sempre confortante, di “squadra rivelazione” e maggiore considerazione.
E chi poteva pensare che l’ingrata sorte sarebbe toccata alla Peroni, una squadra che ancora oggi, già retrocessa, vanta la miglior percentuale di realizzazione di tutta la Al, a testimonianza di uno spessore tecnico di tutto rispetto? Certo, cento fattori determinano vittorie e sconfitte nell’arco di un campionato, ma, razionalmente, non vedevo eccessivi motivi di ottimismo, all’inizio. E la fede è come il coraggio: chi non ce l’ha non se lo può dare, come diceva Don Abbondio, che però, notoriamente, ne sapeva più di calcio che di basket, e credeva nella Provvidenza. Hanno avuto ragione quelli che nella salvezza hanno sempre creduto, primi fra tutti i giocatori e i tecnici; e Carasso, “casta meretrix” per eccellenza, che ci ha sempre giurato, con accenti di consapevolezza fideistica e ammiccamenti scaramantici da esorcista.
Uomo di poca fede io, dunque? Devo dire che ho cominciato a crederci quando ho cominciato a constatare che Reggie Johnson sempre più si stava calando nel ruolo che le speranze della vigilia gli assegnavano, superando i problemi del primo impatto con una realtà assolutamente nuova: maggiore pericolosità in attacco, maggiore puntiglio nel cercare la conclusione, maggiore reattività agli stimoli del coach e della società. Il Johnson della seconda parte di campionato è ben diverso da quello che sembrava riuscire nell’impresa titanica di farci rimpiangere Sims, da quello che chiedeva solo di essere “uno dei cinque”. E le perplessità erano giustificate, all’inizio: Reggie aveva l’aria spaesata di quello che si chiede perennemente: “Ma dove sono capitato?”, mai un gesto di stizza, al massimo sollevava un sopracciglio o increspava il labbro, sospeso in uno stato di abulia, di atarassia direi, distratto quasi. E uno distratto, su un campo di basket… Tu capiresti se, incontrando un tizio coi calzini di due colori diversi e facendogli notare la cosa, ti sentissi rispondere: “Sa, io sono Einstein, quello della relatività”, ma su un campo di basket, e soprattutto dagli spalti, dove si vive e si brucia il fascino fuorviante ma vitale della passione sportiva di 5.000 persone, questo non è concepibile! I tifosi amano i tipi sanguigni, esigono un rapporto più immediato, chiedono impegno evidente e assoluta dedizione! E la cosa ti dava più fastidio perché il soggetto, si vede subito, è uno che il basket lo conosce, più di quanto nessun americano in precedenza ci aveva mai fatto intendere. Ma evidentemente, quanto a temperamento, Johnson è dotato di un self-control tutto inglese. (A proposito, se tante donne fanno l’amore con Control, il self-control cos’è, un profilattico per autoerotomani?). E nel girone di ritorno ha saputo ergersi, a parte poche e comprensibili battute a vuoto, a protagonista assoluto, risultando quel “qualcosa in più” di cui avevamo bisogno. Se venisse confermato, sono convinto che il prossimo anno farebbe grandissime cose.
Un altro che merita una citazione particolare, a giudicare dal numero di comunicazioni giudiziarie che stanno raggiungendo un gran numero di pivot al di sopra di ogni sospetto, è Wansley. Il celebre giornalista meneghino, detto anche “Basta la parola”, come l’altrettanto celebre lassativo, ha mostrato prima di tutto di nutrire nei nostri confronti un livore ingiustificato, ed ha mostrato di non aver mai visto giocare Wansley. Ernesto ha disputa un torneo coi fiocchi, di una regolarità impressionante: per costanza di rendimento e affidabilità è oggi uno dei migliori nel suo ruolo, vera trave portante nell’economia del gioco della Marr; tanti “cadaveri eccellenti” portano la sua firma. Un’altra cosa ha dimostrato il presunto esperto di cui sopra: che la pietà è un sentimento che non coltiviamo abbastanza e che, sicuramente, non godiamo di buona stampa. Fine delle polemiche. Ai due mori della Marr ho voluto dedicare qualche riga in più: l’uno per essersi affrancato da una situazione psicologica derivante da anni di gregariato per quanto prestigioso, l’altro per aver dimostrato che il lavoro e l’applicazione costante pagano al di là delle considerazioni più superficiali. Non sembri ingeneroso nei confronti degli altri componenti della squadra, dei quali abbiamo già avuto modo di parlare e che hanno dato sempre un contributo determinante, al di sopra di ogni encomio. Gli onori vanno equamente distribuiti, in pari misura per tutti.
A parte il risultato finale, alcune “perle” della stagione conclusa vanno ricordate: la vittoria a Milano con la Simac, quella col Bancoroma, le Riunite, la Granarolo. Varese si è dimostrata avara di punti, come Caserta e Pesaro. Particolarmente generosa, come da tradizione e cultura, è risultata Bologna, non so quanto volentieri ( a me viene in mente una scenetta del genere: Porelli-Bistefani, rivolto a Bucci, vestito da fornaretto: “Alberto! Qui alla Granarolo ci sbagliamo sempre. Facciamo biscotti ed escono pasticcini. Chi sono io, Babbo Natale?..” e una barba bianca gli incornicia il volto forense, e un angioletto negro con la faccia di Rolle gli svolazza sulla testa…). Il risultato finale premia un grande lavoro di squadra: ancora una volta, nel crogiolo di Pasini si sono fuse mirabilmente energie, mentalità e filosofie diverse. Benatti il cartesiano, Cecchini l’empirico, Reggie o dell’atarassia stoica, Ernesto il pragmatico, Del Seno il positivista, Ferro l’esistenzialista, Coppari il (fino a quando?) platonico e Battisti il metafisico hanno compiuto una grande impresa di cui andare fieri e della quale li ringraziamo di cuore. Pasini ha mostrato doti, già riconosciute del resto, di grande condottiero e fortuna, che non guasta. A lui ora trarre le conseguenze da tutte le indicazioni che il campionato ha fornito, e alla società il compito di tradurle in atti al fine di rinforzare la squadra per il futuro. Al è bello, ci abbiamo preso gusto e vorremmo restarci a lungo.
Alle retrocedenti che, come angeli caduti dall’Empireo del basket nazionale, lasciano la A1, vorrei dedicare alcuni versi tratti dal Cirano di Rostand, che descrivono un’altra caduta, quella delle foglie in autunno:
Come cadono piano
e bene! E come porre, vedete, ognuna sa
nel suo breve viaggio un’ultima beltà;
e malgrado il terror d’imputridire al suolo,
vuol che nella caduta sia la grazia d’un volo!
Per i vincitori è facile essere generosi. E noi, il nostro campionato, quest’anno, lo abbiamo già vinto. Il resto è… mancia.
5 aprile 1985