«Da ragazzino ero letteralmente innamorato degli Stati Uniti e di tutto ciò che riguardava l’America: ad esempio seguivo con passione il baseball, che a Rimini mieteva successi.
Avevo addirittura iniziato a giocare a basket proprio perché era uno sport “americano” e, di conseguenza, parlavo discretamente l’inglese. Quindi, a 17 anni mi fecero esordire in prima squadra (Sarila) e la mia capacità di interfacciarmi in lingua straniera fece sì che fossi il compagno privilegiato dei giocatori d’oltreoceano (dal povero Mitchell a Mark Crow, da Collins al mitico Otis Howard, dei quali conservo degli aneddoti indimenticabili).
Quell’anno, invece, c’erano Ernesto e Gig.
Ernesto era un muro. Scherzi a parte, il fisico più granitico che abbia mai incontrato.
Non come atleticità (Howard, ad esempio, era maggiormente esplosivo), ma come staticità: se prendeva posizione era impossibile da spostare. Se entravi nel raggio d’azione delle sue braccia eri letteralmente finito: sembrava si ponesse in modo naturale e che ti controllasse distrattamente con un braccio… ma in realtà di “teneva” e ti inchiodava senza permetterti alcun movimento. Incredibile…
(continua…)
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