Quella con l’Indesit, più che una partita di basket, ha avuto il sapore di una corrida; il rito si è consumato a las cinco de la tarde, o poco più. E’ mancato il sacrale flamenco di prammatica, si è toreato sul ritmo incalzante della “Cavalcata delle Valchirie”. Da una parte Oscar Schmidt, quel figlio di Mengele, ad agitar la muleta, ad infergere micidiali stoccate con teutonica precisione, irridendo ogni tentativo di fermarlo. Dall’altra, nella parte del toro infuriato e impotente, la Marr, costretta a giocare contro natura, violentata nel proprio essere.
E come il toro nell’arena va incontro al proprio olocausto, così la Marr, accettando la sfida di una gara a ritmi per lei inusuali, è apparsa subito la vittima designata, secondo copione.
Nessuno poteva presumere di poter contrastare l’Indesit sul piano del ritmo o in una gara di tiro a segno; avremmo dovuto giocare al limite dei 30 secondi, stancare i nostri avversari, innervosirli… Invece, ad un certo punto, ecco tutti a correre come formiche impazzite, vertiginosamente, in una sorta di furore motorio che, anche se non era il caso (la corrida è rito di morte), ti dava il senso di certe comiche finali tipiche del cinema muto. E, ad incrementare il caos, due signori in mezzo al campo vestiti di grigio, probabilmente due banderilleros di passaggio, hanno punzecchiato qua e là, alla cieca, trascinando provocatoriamente tutti alla rissa.
Ora noi, anche se talvolta ci sfuggono i criteri di valutazione e di giudizio degli arbitri, nutriamo sincera simpatia per questa categoria di operatori nel mondo del basket, sebbene, da un punto di vista strettamente etico e freddamente scientifico, l’esistenza di costoro ci faccia seriamente pensare se non si sia insistito con la dovuta severità sul problema, per taluno ancora traumatico, del controllo delle nascite. Però mi risulta che a Chiavari si stiano ancora interrogando sui significati reconditi e sui disegni imperscrutabili che hanno determinato l’apparizione di questo Garibotti; a prima vista non se ne vedrebbe una ragione plausibile, se non quella che si tratti di una cittadina particolarmente ospitale e con una vocazione turistica accentuata. A Torino, per ciò che riguarda Marchis, sfida vivente alla cirrosi epatica, non hanno dubbi: ci deve essere lo zampino di Agnelli, che in vista dell’introduzione sul mercato delle vetture ecologiche ad alcool, prevista dalla comunità europea per il 1990, sta studiando l’autonomia del soggetto in questione: “Quanto fa Marchis con un litro? interroga tutti i giorni i suoi tecnici l’Avvocato – E i gas di scarico, inquinano o no?”. Qualcuno afferma di aver visti i due “fischietti” mentre si allontanavano dal palazzetto, l’uno a fianco dell’altro come due “inseparabili” (i pappagalli), che cantavano spensieratamente: “…io non ho che te, tu non hai che me, insieme non abbiamo un gran ché…”. Siamo d’accordo.
Una nota di cronaca: ha fatto nuovamente la sua apparizione in campo Coppari, contro l’Indesit. Il quale aveva deciso di fare un viaggio, come si usava nell’ottocento, per dimenticare, visto che, per essere dimenticato in panchina, stava bene già dov’era. Ha quindi replicato, consolandoci, l’apparizione in quel di Pesaro, nella infausta partita con la Scavolini. Diceva Rossi, presidente del Torino F.C., che vincere il derby con la Madama con un gol allo scadere è il massimo della libidine. Chi di noi non ha vagheggiato alla stessa maniera di poter tornare da Pesaro con due punti in classifica in più? A parte le difficoltà notevoli nelle quali la squadra di Palazzetti si dibatteva in questo inizio di campionato (confessiamolo: facevamo il tifo per Casey), il campanile ed una storia antica di rivalità condita con un indiscutibile inferiority complex, fatto di tradizioni e di ricordi nonché di esattori papalini, ci autorizzavano perlomeno a sognare. E il sogno, questa attività psichica tipica dell’uomo e, forse, di alcuni animali superiori, ottiene talvolta l’effetto di rimuovere i problemi che la realtà ci propone quotidianamente. E nessun risveglio è risultato più amaro che quello del dopo partita a Pesaro. Siamo stati battuti da una squadra certamente ricca di individualità, ma che ha avuto la possibilità di tirare 26 volte più di noi, grazie alla superiorità risaputa a rimbalzo e all’incredibile numero di palle perse da parte nostra: e questo non ce lo possiamo proprio permettere. Sono mancati clamorosamente Johnson (ma poi, clamorosamente?) e le guardie; e nel momento, l’unico, in cui pareva che il gioco sparagnino della Marr potesse dare dei frutti, essendo arrivati a 5 punti dai marchigiani, gli arbitri, capovolgendo alcune valutazioni sui falli, ci hanno ricacciato indietro definitivamente, irrimediabilmente.
Ora la partita con la Yoga appare veramente l’ultima spiaggia. Per quel socio della Marr, che, intervistato su “Superbasket”, a proposito di alcune centinaia di milioni regalati alla squadra di Rimini, ha dichiarato: “…non sapevamo cosa fare alla domenica e, piuttosto che andare a caccia, adesso preferisco una partita di basket…”, non abbiamo dubbi.
Siamo ad Acapulco, ultima spiaggia a sinistra.
30 novembre 1984
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