Con negli occhi ancora la bella gara con l‘Oece di Lombardi e l’onorevolissima sconfitta a Brescia, ci apprestiamo a seguire le prossime due partite casalinghe contro il derelitto Basket Napoli ed il Caserta, che dovrebbero proiettare la Sacramora, araba fenice, verso una posizione di classifica più tranquilla. Poi, se la Federazione, sempre sensibile ai problemi e ai voti delle società del centro-sud, non ci metterà i bastoni fra le ruote, non ci resterà altro da fare che massacrare a dovere la Sweda di Vigevano e la Lazio di Taurisano per concludere questo campionato così travagliato. Poi si penserà (ancora una volta) al futuro.
Ma torniamo un attimo indietro: si aspettava la partita con l’Oece con una certa apprensione, la si temeva non tanto per la caratura tecnica della squadra, quanto perché rappresentava la prima verifica autentica delle reazioni che il cambio di allenatore avrebbe provocato nei nostri, soprattutto di fronte ad una squadra che sfrutta sempre al massimo le debolezze degli avversari. Mi diceva Paolo Rossi alla vigilia: ”Se riusciamo ad imporre il nostro ritmo, la nostra velocità, bene, altrimenti sarà dura!” E il test appariva veramente dei più difficili. L’Oece è squadra arcigna, direi tignosa, cambia schemi difensivi e ritmo in continuazione, si muove a folate, attua trappole in ogni angolo del campo, concede solitamente pochi punti agli avversari, non muore mai (credo che raramente abbia subito un passivo così severo come contro di noi). In poche parole è squadra che ha carattere, carattere che rispecchia fedelmente quello del suo coach, Lombardi.
“Dado” si era presentato al Flaminio con una camicia bianca, aperta sul petto come uno dei martiri di Belfiore; ma sicuramente era venuto per vincere, non per offrirsi all’olocausto. Ha tentato di tutto, per non perdere: ha prima blandito, poi si è raccomandato, infine ha offeso gli arbitri. Ha urlato, ha pianto, ha deriso, ha minacciato, ha implorato, ha spronato, ha cambiato e ricambiato i suoi giocatori. Ha tentato tutte le difese possibili, a uomo, quattro a zona e uno a uomo, zona 2-3, zona 3-2, pressing. Si è arreso a sette minuti dalla fine, con la sua squadra sotto di 26 punti, sedendosi in panchina, la cabeza ciondoloni, dopo aver gettato ai suoi un’ultima occhiata che, se lo doveva dire con un fiore, era perlomeno un mazzi di carciofi a testa.
A questo grosso personaggio del basket italiano, prima come giocatore poi come allenatore, voglio dedicare qualche riga. Il nome di Lombardi sale prepotentemente alla ribalta alle Olimpiadi di Roma nel ’60. La nazionale italiana, allenata da Nello Paratore, conquista il quarto posto; Lombardi, appena diciannovenne, viene inserito dalla stampa specializzata nel quintetto ideale (scusate se è poco, ma nella squadra USA, la più forte mai vista ad una Olimpiade, giocava gente come Walt Bellamy, Oscar Robertson, Jerry West!). Proveniente dal vivaio del Livorno, allora assai fiorente (vedi Cosmelli, Bufalini, Villetti, Zatteroni, Raffaele), militerà per varie stagioni nella Virtus di Bologna, diventandone la bandiera, per poi passare alla Fortitudo e concludere la carriera come giocatore-allenatore a Rieti. Vince la classifica dei marcatori per due anni (con gli americani) ma non arriverà mai, come Doctor J, allo scudetto.
Gran tiratore, abilissimo nell’uno contro uno e sotto canestro, buon rimbalzista grazie alla sua mole, era pure un grande passatore. Un anno, per dimostrarlo, siccome era accusato spesso di essere un mangiapalloni, come Chamberlain si mise a distribuire assist in quantità; si divertiva anzi, sadicamente, a passare ai compagni palloni imprevedibili, cogliendoli spesso impreparati, ridicolizzandoli quindi. Lombardi ama essere la star, sempre al centro dell’attenzione: distrugge sistematicamente gli americani che giocano al suo fianco, con l’allenatore e i compagni di squadra vive sempre un rapporto travagliato (ne sanno qualcosa Pellanera e Giomo e, in Nazionale Pieri, che il nostro riesce a far fuori); ma è il beniamino del pubblico di Piazza Azzarita e tutto gli viene perdonato. Per quanto è amato a Bologna, sponda Virus, cosi è odiato sui campi di tutta Italia.
Ricordo una memorabile partita, a Pesaro, nel ’67: di fronte sono la Butangas con Ted Werner, “Ragno” Bertini, Scrocco, Lesa, Paolini e l’Ing. Barlucchi e la Candy di Bologna, con il marine Swagerty, 2,04 per 120 chili, Lombardi, Cosmelli, Pellanera, Giomo senior e “sugar” Zuccheri. La partita è vibrante. Lombardi è scatenato, segna 43 punti: dopo ogni cesto alza il pugno in segno di giubilo; ma il dito medio è proteso verso l’alto, rivolto verso il pubblico. Immaginatevi, a Pesaro! Volano file di sedie, uno spettatore ammolla un ceffone a Cosmelli che, ignaro, si appresta ad effettuare una rimessa laterale, a fine partita, vinta dalla Candy, c’è una gigantesca invasione con rissa finale. Morale: Lombardi non si è accontentato di vincere la partita, il campo di Pesaro viene squalificato per tre giornate.
Cosi è Lombardi (il soprannome “Dado” gli rimane dai tempi dell’abbinamento della Virtus con la Knorr), provocatore, polemico e rissoso, come la sua natura di livornese gli impone. In difesa adopera tutti i trucchi, anche i più sporchi: è maestro nel colpo d’anca, nell’impercettibile colpetto al gomito del tiratore, nella “presa bassa”, nella trattenuta maliziosa. Vittime preferite sono “Cagna” De Simone, uno dei tre del muro di Cantù, e Masini; quando viene colto in fallo dagli arbitri (“Ovvia, Vitolo, ‘un fare i’ bischero!”) si abbandona a sceneggiate e gesti di disperazione, istrione sempre, guitto talvolta, immancabilmente un “gran figlio di puttana”! Un grandissimo giocatore comunque, uno dei più grandi in assoluto che abbiano mai calcato i parquet d’Italia.
Come allenatore inizia la sua carriera a Rieti, poi va a Forlì per un anno, quindi a Pordenone, infine a Trieste. Dappertutto, a parte Forlì, ottiene risultati apprezzabili, quando può lavorare con giocatori disposti a sacrificarsi e ad applicarsi in umiltà; Lombardi non tollera le prime donne, al minimo errore richiama i giocatori in panchina, non fa in questo distinzioni fra italiani e americani, chiama gli schemi azione per azione, inevitabilmente finisce per imporre la sua personalità. Il povero Mitchell aveva risolto il problema: una volta, dopo aver subito l’ennesimo rimprovero condito dalle solite contumelie, lo sollevò in aria e gli disse: “Coach, alla prima parola che mi rivolgi ancora io ti mando all’ospedale!“. E da allora, Dado è uno spirito pragmatico, non si parlarono più e andarono d’accordo.
Non è mai stato fortunato, a parte Laurel, nella scelta degli americani, Lombardi. Forse nel segno di questa tradizione qualcuno fece (e fa tuttora) il suo nome come probabile allenatore a Rimini.
Bene, in attesa che la Befana ci regali due punti in più in classifica (a Faina carbone!), buon anno a tutti, tutti meno uno.
30 dicembre 1981
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