Nel 1969, oltre che a giocare in prima squadra con la Libertas Rimini, allora impegnata nel campionato di basket in serie C, allenavo la squadra allievi: una banda di ragazzini del ’56, dotati di un entusiasmo notevole sproporzionato tuttavia rispetto al talento ed ai centimetri necessari ad emergere in proiezione futura. Un’esperienza gratificante comunque, sotto tutti gli aspetti, per la quale mi ero impegnato da quando avevo conseguito il tesserino di allenatore a Bologna, sotto lo sguardo attento di Canna e Alesini (Virtus) e Lamberti (Fortitudo).
Un pomeriggio Carasso e Rinaldi mi portano alla Sala Mostre dove si svolgevano gli allenamenti un lungagnone di 2 metri abbondanti dagli abiti dimessi e lo sguardo un poco perplesso dietro spessi occhiali tondi. “Questo ragazzo si chiama Luciano. E’ del ’52, quindi non può giocare con gli allievi; ma forse vale la pena iniziare un percorso di formazione. Fallo lavorare insieme agli altri, insegnagli i fondamentali del basket. Poi si vedrà”. Luciano non ha mai praticato sport, Rinaldi lo ha scovato in un casolare sperduto a Covignano, una sorta di eremo isolato dal mondo. Appare spaesato, ma viene accolto dai ragazzi con calore e una certa curiosità: uno di 2 metri e 6 da vicino non l’avevano mai visto (la “torre” della squadra era “Lupo” Semprini, 1 metro e 85 scarsi).
Per qualche tempo Luciano partecipa agli allenamenti; mentre sotto un canestro gli altri provano schemi e svolgono esercizi, dall’altra parte del campo inizio a lavorare sui fondamentali, soprattutto tiro, entrata in terzo tempo e palleggio. E’ stupefacente la capacità di assimilare e riprodurre i movimenti che suggerisco: sicuramente Luciano è “vergine” dal punto di vista motorio, non condizionato da precedenti esperienze. In poco tempo si impadronisce dei fondamentali di base: dotato di un discreto ambidestrismo e di una notevole coordinazione nei movimenti non è ancora adeguato sotto il profilo atletico: il petto carenato, la muscolatura scarsa rispetto alle giunture imponenti, la corsa incerta. Occorrerà ancora tanto lavoro. Ma l’impegno è costante, anche se non riesco ad estorcergli che poche frasi quando cerco di coinvolgerlo anche su altri temi: la comunicazione non è il suo forte, ma la partecipazione in palestra è evidente.
Dopo qualche tempo Carasso mi comunica che una delegazione dello staff tecnico della squadra di Cantù verrà a visionare il ragazzo; organizziamo una partitella d’allenamento. Io sono in campo nel consueto ruolo di playmaker: “Luciano, quando prendi un rimbalzo tieni ben stretto il pallone e me lo consegni. In attacco tieni sempre le braccia ben alte; quando ti passo il pallone tu ti giri a canestro e tiri. Tranquillo, quando io ti passo il pallone significa che sei libero di girarti e tirare”. Gli emissari di Taurisano esprimono pareri lusinghieri: certo, il percorso sarà ancora lungo ed impegnativo, ma Luciano Vendemini viene aggregato al vivaio canturino, alloggiato presso il “Campus” della società di Allievi, allora un mirabile esempio di organizzazione societaria, assolutamente all’avanguardia nel panorama italiano.
Per qualche tempo lo perdiamo di vista. Solo dopo un annetto fa la sua apparizione alla Sala Mostre, mentre mi sto allenando con la prima squadra; mi si avvicina, mi porge la mano: “Ciao, come stai?” “Bene, grazie. E tu, cosa mi racconti?” “A Cantù mi trovo bene, sto lavorando duro ed ho ripreso a studiare. Frequento un corso da geometra”. Come cambia il mondo: indossa la divisa societaria, ha gettato gli occhiali ed usa lenti a contatto, mi sembra irrobustito ed è insospettabilmente loquace e comunicativo. Una mirabile trasformazione maturata in poco tempo, il segno di una maturazione individuale, di una promozione sociale che passa attraverso lo sport! Sono commosso. Quando lascia il palazzetto mi saluta con calore e ci diamo appuntamento alla prossima occasione.
L’anno successivo siamo a Bologna al palazzetto di piazzale Azzarita per un’amichevole con la squadra di Mestre; prima di noi si svolge una partita di campionato di serie B che vede impegnata la squadra di Asti dove, in prestito, milita Luciano. Ci affacciamo sul campo dal sottopasso dietro un canestro che porta agli spogliatoi. Dall’altra parte del campo c’è uno che sta tirando i tiri liberi: un fisico imponente, armonioso. Da lontano, all’interno dell’immenso palazzo dello sport bolognese non hai il senso immediato delle proporzioni: solo quando si gira per tornare in difesa lo riconosco. E’ Luciano! Il lavoro in palestra ha prodotto un risultato veramente eccellente. La Metamorfosi è compiuta. Ora è maturo per le straordinarie avventure che lo attendono. Dopo l’anno in prestito ad Asti rientra stabilmente a Cantù. Lo rivedrò solo dopo un paio d’anni: la squadra era a Rimini per un torneo, io ricordo lui e Bob Burgess (uno di 2 metri e 12, l’altro di 2 metri e 7) appoggiati al muro che delimitava l’ingresso all’Embassy come due gigantesche cariatidi.
Da allora ne ho seguito le imprese, culminate nella storica vittoria sulla Yugoslavia guidata dal mitico Cosic agli europei del ’76, solo in televisione. La notizia della sua morte (aneurisma all’aorta) mi ha toccato profondamente, come credo abbia colmato di tristezza tutti coloro che lo avevano conosciuto. Tutti ci siamo chiesti se non si sarebbe potuto prevenire, se non sarebbe stato possibile evitare di infilarsi in quel sentiero già segnato. Forse, avesse dovuto scegliere, avrebbe confermato quel percorso fino alla fine.
Lovv
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